Prepararsi alle certificazioni. Ovvero il giudizio ‘narrato’?
Scrutini e prove Invalsi: nuovi criteri per insegnare e per valutare?
Le scuole hanno appena terminato, o lo faranno a breve, gli scrutini del primo quadrimestre. Molti sono i collegi che hanno scelto la formula del trimestre seguito dal pentamestre. D’altra parte, la seconda parte dell’anno,a causa delle le vacanze di carnevale e di Pasqua, delle uscite didattiche e dell’attuazione dei diversi progetti programmati, in molte scuole si ridurrà ad una sorta di ‘gruviera’. Meglio, quindi, dilatare i tempi per una valutazione più efficace.
Tra le altre incombenze, a maggio cadranno anche le prove Invalsi, finalmente, anche nelle scuole superiori. Così, nelle classi seconda, quinta della primaria, prima e seconda della secondaria di primo grado, seconda delle superiori, verranno somministrate le prove di Italiano e matematica.
A che cosa serve l’Invalsi?
Occorre innanzitutto sgombrare il campo da un grande equivoco, che ancora serpeggia nelle aule italiane: le prove non servono affatto a valutare le scuole. Tanto è vero che i risultati non vengono pubblicati, ma vengono spediti alle singole istituzioni, che ne potranno fare l’uso che reputeranno più consono.
Così come sono nati, gli accertamenti vogliono fornire all’amministrazione centrale, il polso reale della situazione: ovvero, al di là delle pagelle, al di là dei tabelloni finali, che cosa veramente sanno gli studenti italiani?
E’ evidente che si tratti di uno strumento fondamentale per il Ministero, che potrà, di conseguenza, prendere provvedimenti. Non già quelli di sanzionare le scuole, tanto meno i singoli insegnanti (gli apprendimenti non sono imputabili ad un unico insegnante, ma ad una serie di fattori): semmai, quello, ad esempio, di rivedere le Indicazioni (cioè i contenuti disciplinari) predisposti per ogni ordine e grado di scuola e che, secondo quanto previsto dai loro stessi regolamenti, prevedono una revisione ogni due anni.
Che si tratti di prove tese all’accertamento delle reali conoscenze degli studenti italiani è comprovato – anche – dalla presenza (a campione) di osservatori esterni.
Servono agli insegnanti?
Analogamente le prove dovrebbero servire ai docenti, che, a partire dai risultati conseguiti dai propri studenti, potrebbero immaginare interventi correttivi o compensativi nei confronti dei loro alunni. Esemplificando, se in un istituto si totalizzassero livelli particolarmente negativi in matematica, si potrebbe ipotizzare di verificare con maggiore attenzione le cause di ciò, somministrando – ad esempio – questionari agli studenti. Si potrebbe così rilevare che la richiesta è troppo alta, o forse occorre una ‘distensione’ maggiore dei programmi nel biennio, e così via. Ovvero: risultati non positivi, non sono da leggere immediatamente come un giudizio negativo sul singolo insegnante e neppure sui docenti di matematica o italiano. Piuttosto va verificato che cosa – nella gestione, nella progettazione, e poi chiaramente anche nel rapporto educativo – non abbia funzionato.
Prove Invalsi come i ‘veri’ programmi?
Verrebbe a questo punto da chiedersi – motivatamente – se le prove non determineranno concretamente, al di là di quanto è scritto nei Profili e nelle Indicazioni dei rispettivi ordini di scuola, l’agire concreto dei docenti: d’altra parte, come è già successo per l’esame di terza media, saranno introdotti anche nell’esame di stato in quinta superiore, con un loro peso specifico – non modificabile – nella determinazione del voto finale. E’ evidente che a queste prove guarderanno i docenti, con maggiore attenzione rispetto ai traguardi di conoscenza snocciolati nelle Indicazioni ministeriali.
Anche perché la valutazione è meccanica, non passibile di ‘accomodamenti’, e quindi gli studenti non dovranno fallire in queste prove.
Che i test esterni stiano già orientando i comportamenti dei docenti è sotto gli occhi di tutti.
Gli insegnanti della scuola primaria e secondaria di primo grado si preoccupano di sottoporre le prove Invalsi ai propri alunni, in modo tale che, attraverso le simulazioni, sappiano affrontare tale evenienza.
Alcuni studiosi hanno anzi ipotizzato che proprio questa dimestichezza dei nostri ragazzi con le prove, ha permesso all’Italia di raggiungere i migliori risultati ottenuti perfino nei test internazionali Ocse Pisa, da poco resi pubblici.
Non solo: vi sono già dipartimenti di materia (anche nelle scuole superiori) che hanno adottato nelle loro progettazioni i quadri di riferimento forniti dall’Invalsi per i test nelle due discipline oggetto della rilevazione. Per Italiano viene quindi posto come obiettivo la padronanza linguistica intesa come competenza di lettura, integrata dalle conoscenze di base della struttura della lingua italiana (comprensione del testo, grammatica, lessico). Per Matematica, invece l’obiettivo è la competenza matematica intesa come “formalizzazione matematica [che] dovrebbe essere acquisita a partire dalla sua necessità ed efficacia nell’esprimere ed usare il pensiero matematico”.
Perché i test non sono i programmi
Varrà solo la pena ricordare che lo scopo dei test non è quello di orientare la didattica, ma di offrire strumenti ‘alla’ didattica’! Non vi è dubbio che la tentazione di adottarli come traguardi di conoscenza e addirittura di competenza (pur non essendo competenze) è forte.
Ma se il docente si piegasse a questa logica, baratterebbe la sua libertà di insegnamento, la sua professionalità e la possibilità di personalizzazione ad una comoda – quanto immotivata – idea di efficacia. Perché il problema non è che i nostri alunni arrivino a livelli alti alle prove Invalsi, tout court, ma che raggiungano il massimo per sé.
Non solo. Ma che apprendano veramente. Non è che, addestrandoli alle prove finali standardizzate, nelle quali potrebbero anche riuscire egregiamente, i nostri alunni apprenderanno veramente. È una deriva già constatata in ambito anglosassone: tutta la programmazione è piegata al superamento delle prove, piuttosto che alla reale acquisizione di contenuti.
Questo significa appiattire l’insegnamento ai test, piuttosto che stimolare il docente a escogitare i metodi migliori perché gli studenti diano il massimo ed apprendano veramente. Anche perché la valutazione non è riducibile al solo risultato, ma a tutto il percorso dello studente per ottenerlo.
Superare i test potrebbe essere una tecnica, insomma una sorta di addestramento. L’apprendimento richiede la libera adesione del ragazzo alla libera proposta che il suo docente organizza e propone a lui.
Insegnamento, insomma e non addestramento: li separa un abisso!