N.36 - Rapporto ISTAT 2014, un altro colpo al cuore…

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Il 28 maggio scorso l’Istat ha presentato il suo Rapporto annuale col quale fotografa “La situazione del Paese” per il 2014 (qui il link). Un momento ancora molto precario sotto il profilo economico e occupazionale, ma con potenzialità ancora da esprimere. Per avviare la ripresa: più investimento in capitale umano e istruzione.

Il Rapporto Istat 2014 descrive ancora una volta un quadro a tinte fosche. Dal 2008 al 2013 l’occupazione in Italia è diminuita di 984mila unità, delle quali 478mila – quasi la metà! – tutte nel 2013; nella quasi totalità (973mila) sono uomini. Nello stesso periodo «il tasso di disoccupazione ha continuato a crescere salendo dal 10,7 per cento del 2012 al 12,2 per cento nel 2013». I settori più colpiti sono le costruzioni e l’agricoltura, mentre quelli dei servizi – e fra questi la scuola – hanno fatto registrare la flessione più bassa. In compenso, sottolinea il Rapporto, la situazione di precarietà trova «incidenze più elevate tra i collaboratori e tra chi lavora nei servizi generali della Pubblica amministrazione e nell’istruzione»; tra i 25 e i 34 anni, quasi un laureato su tre ha un contratto a termine. E sono proprio i giovani ad aver pagato il prezzo più alto alla crisi: nell’ultimo anno il 42,3% di aumento della disoccupazione è stato a carico di quelli con meno di 35 anni; sempre più incerte le prospettive di trovare – e mantenere – un impiego. Del resto, le cose non vanno meglio a quelli nella fascia d’età compresa fra i 35 e i 49 anni, che formano il 36,7% dei nuovi disoccupati.
Se nel nostro Paese la transizione tra scuola/università e lavoro è particolarmente critica – «nel 2013, tra i 20-34enni che hanno finito gli studi al massimo da tre anni (diplomati di scuola media superiore o laureati), solo il 48,3 per cento lavora contro il 75,4 per cento della media Ue28» –, va molto peggio per coloro che hanno un livello di istruzione più basso: l’80% dei maschi di età compresa fra 30 e 35 anni (laureati o diplomati) è occupato, contro il 67,4% di quelli che hanno al massimo la sola licenza media; l’aumento della disoccupazione ha colpito in misura maggiore le persone meno istruite.
Purtroppo, la crisi ha anche moltiplicato il fenomeno della “sovraistruzione”, sono cioè aumentate le persone che accettano lavori meno qualificati rispetto al proprio titolo di studio (il 23% in più rispetto al 2007). Nonostante l’Italia sia uno dei Paesi dell’Unione europea che presenta le percentuali più basse di laureati, l’incidenza occupazionale dei laureati “sovraistruiti” da noi è tra le più elevate dell’Unione.
Altro fenomeno preoccupante, in pericolosa crescita negli ultimi tempi, è quello dei NEET, giovani tra i 15 e i 29 anni che non lavorano e non frequentano alcun corso di istruzione o formazione (Not in Education, Employment or Training): nel 2013 hanno raggiunto 2 milioni e 435mila unità; +576mila dal 2008. Sono equamente distribuiti tra maschi e femmine, in prevalenza sono nel Mezzogiorno (il doppio che al Nord) e per lo più hanno un diploma (Tavola 3.8); oltre un quarto dei NEET è formato da “inattivi”, persone cioè che non cercano e non sono disponibili al lavoro.
Mentre, anche a causa della recente riforma pensionistica, cresce il numero di occupati stabili fra i 55 e i 64 anni d’età (unica classe d’età con tasso di occupazione in crescita), i giovani faticano molto a trovare lavoro in Italia. Le difficoltà li spingono a cercare nuove opportunità fuori dai confini nazionali: «nel 2012 hanno lasciato l’Italia oltre 26mila giovani italiani tra 15 e 34 anni (Tavola 3.9), 10mila in più rispetto al 2008; negli ultimi cinque anni, si è trattato di 94mila giovani». Dato di per sé particolarmente allarmante, soprattutto se si considera che i flussi in uscita superano abbondantemente quelli di rientro, «con una perdita netta di residenti nel 2012 pari a 18mila unità, di cui ben 4mila laureati».

Il Rapporto mette bene in luce che la crisi non ha colpito le famiglie italiane solamente sotto il profilo economico/occupazionale, ma è andata a fondo nel vissuto quotidiano, fino ad incidere sulle più elementari capacità di speranza rappresentate dall’ingresso di nuove generazioni. Se il 1995 aveva fatto registrare, con soli 526mila nati, il minimo storico della natalità in Italia dal dopoguerra, il 2013 rischia di segnare un nuovo record, ancor più negativo: «nel 2013 si stima che saranno iscritti in anagrafe per nascita poco meno di 515 mila bambini, circa 64 mila in meno in cinque anni e inferiori di 12 mila unità al minimo storico delle nascite del 1995». Questa nuova fase di denatalità non solo porta ad un ulteriore incremento del processo di invecchiamento del Paese – con tutte le inevitabili complicazioni socio-economiche che ne derivano –, ma segna anche un radicale cambiamento dello spirito nazionale che aveva caratterizzato i duri anni del dopoguerra (grande fiducia nel futuro, capacità di sacrificio e voglia di riscatto). Nel 1964, a fronte di una popolazione di circa 50 milioni di persone, le nascite arrivarono a 990mila; oggi, con 10 milioni di abitanti in più, i nuovi nati sono poco più della metà. L’opulenza non ha portato maggiore fiducia nel futuro. Il problema non verrà solo dal fatto che, fra quattro anni, il buco demografico del 2013 si farà sentire nella scuola con circa 2.000 classi di primaria in meno.