N. 13 - Sulle prove scritte dei concorsi ordinari

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SULLE PROVE SCRITTE DEI CONCORSI ORDINARI

Le prove scritte del concorso ordinario per l’insegnamento, in via di svolgimento in queste settimane, stanno mostrando criticità molto gravi sotto gli occhi di tutti: le domande risultano per lo più nozionistiche, astruse o perfino stravaganti; spesso riguardano argomenti lontani dalla pratica scolastica o perché troppo specifici o perché riguardanti insegnamenti diversi da quelli per cui si concorre.

Il nozionismo su cui si basano le prove è un errore molteplice, perché esso osteggia sia le finalità della scuola di oggi, sia il fine per cui le prove stesse sono state previste dal legislatore, sia la dignità dei partecipanti, molti dei quali lamentano pubblicamente di non essere stati selezionati né per il proprio livello di preparazione globale né per i programmi studiati, visto che gran parte di essi sono stati rimodulati pochi giorni prima della prova.

Anche se non si ha ancora un quadro complessivo, il numero degli ammessi alla prova orale è spesso inferiore a quello della disponibilità delle cattedre. Una situazione davvero anomala.

Ma non è solo una questione di opportunità mancata, la domanda è: quale idea di insegnante c’è dietro le prove che sono state scelte per selezionare i migliori insegnanti dei prossimi decenni? Chi e con quali scopi ha deciso di utilizzare come strumento selettivo i suddetti quesiti, ai quali strumenti è stato riservato l’arduo compito di discriminare in alcune decine di minuti la preparazione di un aspirante docente?

Sembra che il Ministero abbia voluto selezionare, in modo ancora più duro dell’università, gente già in possesso di una laurea disciplinare (o più), quando invece il mondo della scuola si aspetta docenti con una buona cura e padronanza dei processi di insegnamento/apprendimento, di modalità trasmissive e saperi essenziali, di abilità e competenze trasversali. È fortemente contraddittorio che una scuola all'avanguardia, come dichiara di voler essere quella italiana, recluti nel XXI secolo basandosi sul nozionismo.

A meno che questo sia l’ennesimo atto ministeriale che risponde a esigenze diverse da quelle centrali per gli attori della scuola, come ad esempio esigenze legate all’emergenza, alle transizioni governative e amministrative, al rischio di ricorsi - che da anni affliggono e rallentano le pratiche concorsuali - o ancora a logiche di risparmio. Tutti problemi che, ben inteso, vanno presi in considerazione, ma che non possono diventare il principale o l'unico criterio di scelta per un nerbo così delicato della scuola. Insomma, i concorsi stanno rappresentando un atto dovuto che disorienta in modo grave e genera avvilimento rispetto alla tanto declamata centralità educativa e culturale della scuola.

Anche se così fosse, chiediamo ai decisori politici:
1. di rimediare in qualche modo allo scacco di chi ha investito tanto nella partecipazione a questo concorso, per esempio introducendo dei correttivi nella valutazione delle prove scritte o abbassando la soglia di ammissione, per offrire una seconda opportunità almeno ad un’altra piccola fetta dei candidati: tanti di essi, tra l’altro, insegnano da tempo nelle scuole, pubbliche o paritarie, e si fanno già carico quotidianamente di tutte le situazioni formative e didattiche in cui si imbattono;
2. di modificare questa modalità di reclutamento che risulta approssimativa e inadeguata a selezionare in modo efficace i nuovi professionisti della scuola, tenendo conto delle proposte che arrivano dal mondo della scuola e delle associazioni professionali che si spendono stabilmente per la formazione.
Appare ormai evidente che occorre separare la fase dell’abilitazione da quella del reclutamento tramite concorso, come prevede la Costituzione. Poiché è indubbio che per diventare validi insegnanti occorra maturare determinate competenze essenziali, è importante che il Ministero definisca quali esse siano e quali siano le modalità attraverso cui esse possano essere acquisite. A parer nostro, per ottenere l’abilitazione all’insegnamento è necessario che gli aspiranti docenti imparino a relazionarsi con gli studenti, accogliendo e rispondendo al loro bisogno di conoscenza e di crescita attraverso l'apprendimento disciplinare. Non esistono modalità di formazione efficace che esulino dall'esperienza diretta di insegnamento seguita dalla riflessione, dentro cui anche le conoscenze teoriche trovano il loro punto di verifica. Per questo motivo riteniamo necessario un tirocinio lungo, cioè almeno annuale, durante il quale i futuri docenti - regolarmente retribuiti come accade nella fase iniziale di altre professioni - prendano effettivo contatto con la realtà dell'insegnamento fino all'assunzione effettiva di responsabilità nelle classi. Conseguentemente, crediamo che tale tirocinio debba avere un peso determinante per l'abilitazione e in seguito nei criteri che guidano l'assunzione. Che poi a tutorare il tirocinio siano docenti universitari o di altri ordini di scuola o associazioni professionali è oggi un argomento secondario: l’elemento fondamentale è che i soggetti tutor conoscano bene l'esperienza dell'insegnamento attuale, compresi i nuovi scenari in cui si trovano i giovani che hanno vissuto la scuola durante la pandemia.