N. 6 - Se i nostri studenti non credono più nella scuola

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“Ma prof., la scuola non serve a imparare davvero, solo all’università si farà sul serio!” Un refrain sempre meno insolito tra gli studenti delle scuole superiori, che li rende pian piano più cinici e soprattutto li allontana dalla sfida cogente con le circostanze del presente, disabituandoli a fare i conti con la realtà. Solo più piccoli di qualche anno, molti di loro iniziano l’ultimo quinquennio di studi con tante aspettative e speranze, ma poi maturano questo icastico giudizio: non vale veramente la pena affrontare al meglio il percorso educativo-didattico scelto!

D’altra parte dobbiamo chiederci se agli studenti - man mano che diventano più “esigenti” come soggetti pensanti, non riconducibili alle aspettative del mondo adulto - noi docenti riusciamo veramente a offrire un percorso formativo adeguato, una promozione culturale e umana che corrisponda all’altezza dei desideri più veri di ciascun cuore in crescita. E un fallimento a questo livello di aspettativa, oggigiorno, presenta un conto molto salato: agli stessi interessati, a noi educatori e all’intera società. Le spie del malessere con cui i ragazzi vivono la scuola le conosciamo bene: disattenzione e menefreghismo in classe, assenze frequenti e “immotivate”; copiature, falsificazioni e stratagemmi rocamboleschi nelle routine scolastiche; esiti didattici (e statistici) al di sotto di ogni aspettativa; perfino canzonature e violenze verso i proff. Forse perché illusi di dominare tutto attraverso un semplice smartphone, che sembra rispondere a ogni domanda tramite le risorse del web e dell’IA, è più facile per loro rifugiarsi nel passato o proiettarsi in scenari futuri, ma in ogni caso l’oggi e le sue sfide diventano evanescenti, e l’io sempre più “liquido” e “altrove”.

L’altra faccia della stessa medaglia è rappresentata dalle numerose fragilità dei giovani, i quali spesso vivono la routine scolastica con livelli di ansia o competizione che li portano anche a rinunciare e arrendersi, quando le difficoltà aumentano (dispersione implicita o reale). In un tema d’italiano, invitato a una riflessione sulle sfide che attendono la nuova generazione, un ragazzo scrive così: “Si vive con la paura e l’ansia del domani; gli adulti ci insegnano che il mondo è fatto così, o ti adatti o vieni inghiottito. Non siamo più fatti di felicità. Sono stanco di vivere, stanco di stare in un mondo che non sento più mio, che mi crea disagio, dove anche il solo respirare diventa impossibile”.

Ma come rispondere a un bisogno così profondo?

Continuiamo ad auspicare, come educatori, una sinergia di attenzioni e “risposte”: dalla politica, il rimettere al centro i giovani, l’ora di lezione e la qualità dell’insegnamento; da chi gestisce gli aspetti amministrativi e burocratici, realizzare le condizioni che evitino agli studenti di considerarsi dei robot che erogano prestazioni. Un esempio per tutti: in molti registri elettronici in uso, la prima schermata dell’applicazione pone in bella mostra, accanto al nome dell’alunno, il numero aggiornato indicante la media scolastica ottenuta dallo studente, il quale – o per proprio puntiglio o per insistenza dei genitori – si abitua a concepire il suo percorso di apprendimento in rapporto a quel numerino. Capita spesso, nei dialoghi in classe, di percepire tutta la preoccupazione di alcuni ragazzi legata alle conseguenze fauste o infauste dell’evoluzione della media!

Ma la risposta più significativa alle aspettative e ai disagi dei nostri giovani è quella che può accadere durante le ore di lezione, da cui dipenderà se l’alunno percepirà di essere introdotto alla bellezza e alla profondità della conoscenza, come chiave per diventare più sé stesso. Esperienze significative a questo livello non mancano neanche tra le criticità descritte: in queste settimane si stanno concludendo, ad esempio, I Colloqui Fiorentini e le Romanae Disputationes, esperienze didattiche di eccellenza nate decenni fa in seno a Diesse e condivise con migliaia di studenti, che ogni anno testimoniano che è possibile far letteralmente sbocciare un gusto nuovo e imprevedibile nello studio, nonché nella relazione con compagni e docenti impegnati nella stessa avventura. Una ragazza che è da poco tornata dal convegno di Firenze, ad esempio, scrive così: “Se dovessi dire che cosa mi porto da quest’esperienza, partirei dal termine consapevolezza. È una parola che adesso porta con sé tanti significati e momenti che resteranno su di me come una ferita. (…) Ciò che ho percepito è stata un’energia palpabile, capace di abbassare le mie difese, così da sentirmi a mio agio e non sbagliata, scacciando via dalla testa la costante idea che l’altro possa giudicarti. (…) Ciò che è cambiato in me è la consapevolezza di avere qualcuno capace di poter capire la mia incompletezza (…)”. O ancora: "E ci accorgiamo di essere dimezzati in un mondo perfettamente intero/ Guardiamo di nuovo la sensibilità degli uomini/ Ci appropriamo dello sguardo di Calvino/ Veniamo provocati e come lui rispondiamo/ A volte pensiamo di esserci e invece non ci siamo/ Ma io davvero ci sono stato/ È davvero successo qualcosa".

Non smettiamo dunque di esigere da noi stessi, dai nostri colleghi e dai nostri alunni di mantenere alta la sfida dell’ educare istruendo, che sola può salvare tanti destini dal nichilismo, dall’omologazione e dalla violenza così diffusi oggi.