Quale carriera e quale formazione obbligatoria nella Buona Scuola?

Parlare di Buona Scuola è sempre un po' 'scivoloso' in questo periodo: in attesa del decreto definitivo, vorremmo riflettere su due aspetti sollevati dal DDL sulla Buona Scuola, rimandando agli Editoriali pubblicati sul sito di Diesse per un giudizio complessivo.

Merito e carriera
Ci interessa sottolineare la questione del merito, non tanto per l'aspetto economico (anche se non marginale…), quanto perché fa emergere il problema del riconoscimento del lavoro dei docenti.
Il testo definitivo del DDL presentato alla Camera sembra valorizzare il merito con una posta aggiuntiva di 200 mln di euro. Se – come si legge nel comunicato stampa del Miur – il bouns aggiuntivo allo stipendio riguarderà il 5% dei docenti, l'aumento sarà consistente (anche 5/6000 euro all'anno). Questo però significa che solo pochi potranno beneficiarne. Il testo indica che sarà il DS a scegliere questi insegnanti, sulla base della valutazione dell'attività didattica in ragione dei risultati ottenuti in termini di qualità dell'insegnamento, di rendimento scolastico degli alunni, di progettualità nella metodologia didattica utilizzata, di innovatività e di contributo al miglioramento complessivo della scuola.
Premesso che a noi piace molto l'idea della diversificazione degli stipendi in base alla qualità della docenza e che il testo sembra voler andare in quella direzione, è pur vero che, poiché il 5% – grosso modo – coincide con le vecchie figure di sistema, non vorremmo che i criteri fossero, tutto sommato, ancora i medesimi. Anche perché – effettivamente – per un DS non sarà cosa facile individuare i migliori docente sulla base dei risultati didattici. Molto più semplice è trovare criteri oggettivi, individuabili e chiari. Non è, infatti, un caso che le Schede di lettura redatte per l'esame del DDL alla Camera, allertino i deputati a "valutare l’opportunità di specificare i criteri generali di assegnazione delle risorse ai docenti" (p.74).
Peraltro non sfugge che per un DS sarà più semplice, piuttosto che riconoscere il buon docente che fa egregiamente lezione in aula, ma che non si fa 'sentire' al di fuori, premiare gli insegnanti impegnati nei mille progetti, attività, commissioni di cui si sostanzia la scuola. D'altra parte, come andrebbero misurati i risultati degli studenti? Con gli esiti delle prove Invalsi? Semmai sul valore aggiunto prodotto dal docente negli anni. Ma si sa che è un'operazione 'rischiosa'.

La questione della formazione
L'altro aspetto – strettamente legato a questo –, è quello della formazione che diventa obbligatoria. Nella Relazione tecnica si legge che tutti i docenti dovranno seguire 50 ore di corsi, laboratori e lezioni on line. Le attività sono definite dalle singole istituzioni scolastiche in coerenza con il Piano triennale dell’offerta formativa. Il percorso è suddiviso in 4 fasi: incontri di accoglienza e fine corso per la durata complessiva di 5 ore a gruppi di massimo 250 docenti; laboratori formativi dedicati (4 laboratori dedicati ad approfondimenti di 3 ore ciascuno a gruppi di massimo 30 docenti e 4 ore di autoformazione e rielaborazione dell’esperienza); attività peer to peer (5 ore di affiancamento di ciascun docente ad un tutor della scuola per scambio di esperienze tra pari e 4 ore di autoformazione e rielaborazione dell’esperienza); formazione on line (20 ore).
Ci sfuggono però alcuni aspetti essenziali: se è vero – fortunatamente – che il contenuto della formazione è stabilito dalle scuole, perché mai definirne le modalità a livello centrale? Che cosa significano incontri di accoglienza a gruppi massimo di 250 docenti? Si allude a gruppi o reti di scuole? E perché 4 laboratori e non 5? E perché massimo gruppi di 30 docenti? Si capisce bene che il Miur ha dovuto 'fare quattro conti' e questo modello glielo permetteva: ma che senso ha predefinire la modalità di fruizione della formazione? E se un docente volesse fare 50 ore al di fuori della scuola? Sono in più?
Interessanti le ore peer to peer: ma perché 5 ore di affiancamento di ciascun docente a un tutor della scuola? Perché non di più o non di meno se in una scuola nessun docente può (o vuole) fare da tutor?
Facciamo inoltre presente che 50 ore non sono poche, e che andranno individuate altre modalità di riconoscimento della formazione, come ad esempio lezioni, laboratori o altro che testimonino un aggiornamento e una riflessività che producono frutti concreti in aula.

Il solito centralismo
Insomma, si parla tanto di autonomia, ma poi si ricade sempre nel vizio antico di definire tutto centralmente: e anche se l'intento – lo riconosciamo – è buono, rimane il vizio. Insomma, che lo Stato incominci a fidarsi di più delle scuole e dei singoli docenti che sapranno – in vera autonomia – trovare le modalità più opportune per aggiornarsi; ed anche individuare i corsi per loro più efficaci. Ricordiamo infatti che i contenuti dovrebbero emergere dal Piano formativo definito dalle scuole: non vorremmo che il piano di aggiornamento di scuola 'obbligatorio' diventasse un cappio per i singoli docenti, che dovrebbero invece poter decidere su quale materia o problematica aggiornarsi per rispondere alle proprie esigenze, non solo a quelle della scuola. Siamo sicuri – lo diciamo come associazione che vive la formazione nelle scuole – che l'obbligatorietà sia una buona leva?
Sono domande aperte: speriamo che il decreto definitivo le chiarisca.