N.17 - Tra aumenti da restituire e contratto rinviato

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Gli aumenti contrattuali percepiti nel 2013 non dovranno essere restituiti, ma ancora non è chiaro dove sarà prelevata la necessaria copertura economica. Il contratto di lavoro, fermo al 2009, potrà essere riaperto, ma solo per la parte normativa. Intanto i docenti italiani, malpagati e con una carriera legata solo all’anzianità, continuano ad essere considerati semplici titolari di una “funzione”.

Responsabilità formali a parte, vere o attribuite secondo la collaudata tecnica dello scarica-barile, la vicenda degli scatti stipendiali prima attribuiti e poi annullati non rappresenta certo una buona performance dell’attuale esecutivo, e nemmeno dei sindacati. Il primo più intento a difendere equilibri precari e rendite di posizione, gli altri capaci di fare la voce grossa solo quando le conseguenze di certi atti legislativi – sempre più spesso scoordinati ed approssimativi – ricadono materialmente sulle spalle dei lavoratori che avrebbero dovuto proteggere. Approssimazione, superficialità, statalismo e negligenza sono i caratteri distintivi di alcune vicende che stanno interessando la scuola in questi giorni. Vediamo di capire cosa è successo e quali sono le prospettive.

Come si ricorderà, è stata una legge dell’estate del 2010 (n. 122 del 30 luglio) ad introdurre il blocco delle progressioni stipendiali per tutto il triennio 2010-2012; di fatto, tre anni non utili alla maturazione delle relative posizioni stipendiali di anzianità, unica forma di carriera del personale della scuola. Coloro che in assenza del blocco avrebbero maturato lo scatto nel 2012 hanno percepito gli aumenti nel 2013, con un anno di ritardo.

A motivo della grave situazione economica e finanziaria del Paese, lo scorso settembre è stata disposta la proroga del blocco della contrattazione economica e degli automatismi stipendiali dei pubblici dipendenti, scuola compresa. In particolare, il DPR n. 122 del 4 settembre 2013, entrato in vigore i primi di novembre, ha spostato in avanti di un anno il termine del blocco delle progressioni stipendiali maturate, rendendo così illegittimi – a posteriori – gli aumenti già attribuiti a circa 90mila tra docenti e ATA. Di questo apparente svarione legislativo e delle sue conseguenze pratiche “sembra” non si sia accorto nessuno, né nel Governo, né tra i sindacati di categoria. A dicembre, il funzionario del ministero dell’economia incaricato dell’operatività del DPR ha emanato una disposizione (Nota n. 157 del 27 dicembre) con la quale il MEF revocava gli aumenti stipendiali del 2013, definendoli “crediti erariali” dello Stato nei confronti di coloro che li avevano percepiti e ne stabiliva il recupero «con rate di importo fisso lordo di € 150,00 fino a concorrenza del credito». Ciò che è accaduto poi a cavallo delle vacanze di Natale è noto: proteste un po’ tardive dei sindacati, prese di distanza dei responsabili dei due dicasteri i quali, stracciandosi le vesti, hanno sostenuto di essere all’oscuro della Nota (ma come potevano non sapere?) e infine la soluzione tappabuchi del Presidente del Consiglio di annullare la restituzione. Subito è cominciata la caccia al responsabile materiale (un funzionario “troppo solerte”…) e, visto che comunque la disposizione rientrava in un conto economico già definito e approvato, la ricerca delle coperture economiche alternative; rassicurazioni pubbliche e promesse reiterate a parte, la vicenda non è affatto conclusa.

Intanto resta il blocco del rinnovo contrattuale sul piano economico, con stipendi fermi alle previsioni del 2006 (il CCNL è ancora quello del 2006-2009) ai quali già corrisponde una consistente perdita del potere d’acquisto e si aggiunge lo stop all’indennità di vacanza contrattuale fino a tutto il 2014; sarà sbloccata per il«triennio contrattuale 2015-2017», lasciando intuire che anche per quegli anni non ci saranno altre variazioni economiche. Né può la disponibilità espressa dal Governo a riaprire la contrattazione sul piano normativo migliorare la situazione. Infatti, se le ipotesi sul tappeto restano solo quelle dell’apertura delle scuole tutto il giorno, dell’aumento delle ore di cattedra e delle attività non di insegnamento, tutto a saldi economici rigorosamente invariati e un Fondo d’Istituto sempre più risicato, ne verrebbe fuori solo un aggravio di lavoro a parità di stipendio: oltre il danno anche la beffa.

Fino a quando il lavoro del docente sarà considerato, sul piano normativo e contrattuale, l’espletamento di una funzione impiegatizia – cioè dipendente –, non si uscirà dall’angustia e dall’equivoco di una retribuzione fondata su schemi orari e quantitativi, agganciata ad una progressione di carriera legata alla sola anzianità. Occorre uscire da tali schemi obsoleti per orientarsi verso un nuovo tipo di contratto che riconosca l’insegnamento come una libera professione legata, anche economicamente, alla qualità degli esiti, quindi al merito.