N.29 - Il sistema di istruzione italiano e l'orientamento

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Tre autorevoli Rapporti di questi giorni mostrano uno spaccato del nostro sistema di istruzione; con qualche attenzione all'orientamento scolastico e universitario, ma non solo. Dati utili per un’attenta riflessione sulle responsabilità del livello istituzionale e degli attori diretti dell'azione educativa.

Su un punto i Rapporti 2014 del Consorzio interuniversitario Almalaurea e dell’Anvur (l’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario), concordano: se è vero che i neolaureati italiani lavorano e guadagnano poco, «la laurea continua a offrire migliori prospettive occupazionali e di reddito di quanto faccia il diploma di scuola superiore» e rappresenta sempre «un forte investimento contro la disoccupazione». Infatti, il tasso di disoccupazione durante la recessione da noi è cresciuto di 6,5 punti per i neolaureati (età fra i 25-34 anni) e di ben 14,8 punti per i neodiplomati (18-19 anni). Per quanto riguarda le retribuzioni, le fonti ISTAT ci dicono che quelle dei laureati risultano più elevate del 48% rispetto a quelle dei diplomati di secondaria superiore. Eppure, sebbene tra il ’93 e il 2012 la quota di laureati tra i 25 e i 34 anni d’età sia più che triplicata passando dal 7,1 al 22,%, l’Italia continua ad essere uno dei Paesi con più bassa quota di laureati e ormai ci sarà impossibile raggiungere l’obiettivo del 40% di giovani laureati fissato dalla Commissione europea per il 2020.

Le cause di questo grave ritardo sono molteplici. Almalaurea (link) punta il dito sulle scarse risorse destinate dall’Italia all’istruzione universitaria: l’1% del PIL, contro l’1,5 della Francia, l’1,4 del Regno Unito, l’1,3 della Germania e il 2,8% degli Stati Uniti. Secondo l’Anvur (link) uno dei fattori è costituito dall’assenza nel nostro Paese di percorsi professionalizzanti, che invece nella media europea caratterizza «circa un quarto dei giovani in possesso di un titolo di istruzione terziaria». Le nostre lauree sono tutte ad alto contenuto teorico, tipico dell’istruzione universitaria tradizionale, mentre ad esempio in Germania il 9% dei laureati possiede un titolo professionalizzante. In sostanza, per i nostri diplomati (il cui numero è ormai allineato alla media europea) l’alternativa alla prosecuzione degli studi universitari è solo il lavoro. C’è poi un fattore che l’Anvur dettaglia con precisione: il tasso di insuccesso negli studi universitari. Solo il 55% degli immatricolati consegue il titolo, a fronte di quasi il 70% della media europea; «quasi il 40% degli studenti che intraprendono un corso di primo livello non conclude gli studi», mentre «dopo il primo anno circa il 15% abbandona gli studi nella triennale e altrettanti decidono di cambiare corso». Accanto a questi, circa il 6-7% abbandona i corsi a ciclo unico e il 9% non completa il secondo livello.

Quali le cause di tassi di abbandono così elevati e percentuali di scelte sbagliate tutt’altro che limitate? Il Rapporto 2014 di Almadiploma (link) fornisce qualche dato significativo in proposito. A un anno dal diploma, il 64% dei diplomati è iscritto ad un corso di laurea (il 12% è studente lavoratore); il 15,4% lavora soltanto, il 16,2% è alla ricerca di un lavoro e il 4,4% non lavora e non studia. Il dato più allarmante è però un altro: sempre a un anno dal diploma il 44% dei diplomati dichiara di aver sbagliato la scelta della scuola superiore. «La scelta del percorso di scuola secondaria superiore – commenta il Rapporto – avviene notoriamente in un momento molto delicato, nel quale da un lato il ragazzo ha assai raramente raggiunto la maturità necessaria per compiere una scelta pienamente consapevole, così che famiglia e insegnanti della scuola media dell’obbligo esercitano un ruolo di primaria importanza nella scelta del percorso da compiere»; è probabilmente per tali motivi che ben 44 diplomati su 100, potendo tornare indietro, cambierebbero scuola; forse anche per questo si è ridotto il passaggio dalla scuola secondaria superiore all’università e si verificano abbandoni e cambi di corso in misura tanto significativa. A cinque anni dal diploma aumentano i diplomati che lavorano: il 41%. Tra abbandoni e fermata al diploma di laurea triennale, solo il 30% continua gli studi universitari, accanto a un 16% che studia e lavora. Non sarà l’unico fattore, ma non c’è dubbio che la carenza di un serio orientamento, già a partire dal passaggio alle superiori, determina guasti consistenti nelle scelte dei nostri giovani, fino a ripercuotersi anche nell’ultimo segmento della formazione professionale definitiva.

Alla luce di questi dati è interessante leggere la situazione delle iscrizioni alle superiori per il prossimo a.s. 2014/15 (dati MIUR). Al primo posto troviamo i licei, con il 50,1%; seguono i tecnici, 30,8%, e i professionali, 19,1%. La crescita dei licei (+1,2%) e il calo dei professionali (-0,8%) sembrerebbe indicare una inversione di tendenza: più liceo uguale più università. In realtà quando si passa ai dati disaggregati la situazione assume prospettive diverse. In testa a tutti c’è il liceo Scientifico con 121.686 nuove iscrizioni, quasi un quarto degli alunni che andranno alle superiori il prossimo anno, metà dei neoiscritti ai licei. Nell’immaginario collettivo il liceo Scientifico rappresenta una scuola che può garantire il maggior numero di sbocchi universitari; la tendenza da parte delle famiglie pare quindi quella di rinviare più avanti la scelta professionale, evitando di precludersi delle possibilità. Scelta prudente, ma anche indice di un certo disorientamento e della carenza di un’adeguata analisi vocazionale sugli allievi da parte degli insegnanti dell’ultimo anno delle medie. Una carenza destinata probabilmente a ripetersi al termine del ciclo secondario, se non si provvede ad offrire agli studenti esperienze di approccio al mondo del lavoro come, ad esempio, stage in azienda e percorsi di alternanza scuola-lavoro anche nei licei.