N.19 - Quale autonomia nella Buona Scuola?

2014_2015_19_quale-autonomia-nella-buona-scuola.pdf78 KB

«Autonomia non è sinonimo di decentramento amministrativo – ha detto il sottosegretario Faraone ai rappresentanti delle scuole autonome il 20 gennaio scorso – Dobbiamo avviare una revisione delle competenze», ricordando che «il governo con la ‘Buona Scuola’ vuole rivedere la distribuzione delle funzioni dell’amministrazione centrale, di quella periferica e delle scuole». Un altro tassello che si aggiunge al variegato e moltiforme mosaico degli annunci di questi mesi sul futuro della scuola italiana.

Siamo ormai alla fine di gennaio e di tutti i provvedimenti annunciati nel documento programmatico “La Buona Scuola” non uno ha ancora mosso i primi passi pubblici, nessuna bozza, solo anticipazioni generiche e talvolta contraddittorie. Nessuna notizia nemmeno dei provvedimenti propedeutici alla riforma, come il censimento sulle GaE che avrebbe dovuto svolgersi entro il 31 dicembre scorso in vista delle nuove assunzioni, o dell’operazione “scuola trasparente” che prevedeva l’immediata messa a disposizione pubblica di tutti i dati raccolti dal MIUR sul Sistema nazionale di istruzione (fino alla settimana scorsa l’ultima pubblicazione era di ottobre 2014, riferita a dati 2013/14…). Il 22 febbraio è la nuova data fornita dal premier per la pubblicazione dei primi provvedimenti, ma a forza di stratificare annunci l’operazione “Buona Scuola” sta rischiando di fare la fine delle pecore del pastorello burlone della favoletta di Esopo.

Intanto la scuola italiana vive come con una doppia identità: quella delle prospettive legate agli annunci – molte delle quali tutt’altro che condivise – e quella della realtà quotidiana, sempre più difficile.

Da una parte la previsione dell’abbattimento del precariato storico e la chiusura delle GaE (ma non sono precariato anche tutte le decine di migliaia di abilitati TFA e PAS?); dall’altra, le immissioni in ruolo dispose dalla magistratura in conseguenza della sentenza delle Corte europea di giustizia, che ha condannato lo Stato italiano per la reiterazione oltre i 36 mesi dei contratti a tempo determinato nella scuola. Per ora sono un numero irrisorio rispetto alle 148mila assunzioni previste dal governo, ma sono destinate a moltiplicarsi a valanga: queste prime sentenze sono già giurisprudenza di riferimento consolidata per i tanti ricorsi che si stanno concretizzando in questi giorni. Con il rischio concreto che, nel breve periodo, le assunzioni a tempo indeterminato superino di gran lunga il fabbisogno oggettivo del Sistema statale e l’inevitabile conseguente scadimento della figura professionale del docente (ma di questo abbiamo già scritto). A tutto scapito della qualità della scuola e dei suoi allievi.

Da una parte l’annuncio di una nuova sedicente progressione di “carriera per merito” contingentata (66% dei docenti ogni tre anni), che ormai ha mostrato il suo vero volto di regressione economica (tagli mascherati). Una proposta de “La Buona Scuola” sonoramente bocciata dalla consultazione, che ora il governo è costretto a rivedere reintroducendo almeno parzialmente gli scatti di anzianità. Gli ultimi rumors (sono ancora annunci del sottosegretario Faraone) vedono poi la configurazione di due ruoli intermedi come articolazioni della carriera docente: il docente “mentor” destinato a supportare la didattica (già anticipato nella “Buona Scuola”) e il docente di “middle management” con compiti più specificatamente organizzativi e di gestione degli istituti. Due funzioni già presenti nella scuola, ma che verranno retribuite con uno specifico salario aggiuntivo (maggiore di oggi) e, soprattutto, rese stabili nel tempo come posizioni acquisite in via definitiva. Altra prerogativa delle due funzioni sarà quella di costituire precondizione giuridica per poter concorrere alla dirigenza scolastica e alla carriera ispettiva. Per altro verso, la realtà di questi giorni ci mostra quasi un raddoppio delle domande di pensionamento rispetto allo scorso anno: chi può, appena può, scappa da un lavoro sempre più difficile e complicato, e con una retribuzione bloccata da oltre un quinquennio. Se a chiedere di andare in pensione sono soprattutto le maestre (facilitate da un inizio di carriera in più giovane età degli altri docenti), chi non può lasciare cerca sistemazioni meno pesanti ed economicamente migliori: ogni anno sono sempre di più i passaggi di cattedra dalle medie alle superiori.

Da un lato la “Buona Scuola” promette di «realizzare pienamente l’autonomia scolastica», un’autonomia capace ad esempio di offrire piani di studio personalizzati e ad alta flessibilità, ma poi sostiene l’incremento del curricolo obbligatorio con ulteriori insegnamenti (musica, educazione motoria, storia dell’arte e disegno,…).

Giusto puntare, come sottolinea Faraone, su un alleggerimento dei carichi amministrativi che attualmente ingolfano le scuole, ma ci permettiamo di dire che non è un minore impegno burocratico a garantire più autonomia. Non a caso l’OCSE, nel suo ultimo rapporto “Education Policy Outlook 2015” (link), bacchetta l’Italia denunciando il fatto che «le scuole italiane hanno uno dei livelli più bassi di autonomia tra i paesi OCSE quanto ad allocazione di risorse (ad esempio nell’assunzione e licenziamento degli insegnanti)». Si potrà parlare di autonomia pienamente compiuta solo quando le scuole avranno la possibilità, entro opportune regole, di assumere il proprio personale e (perché no?) anche di licenziarlo. Non c‘è bisogno di cambiamenti drastici, ma la direzione dovrebbe essere sin d’ora quella indicata dall’OCSE; con le opportune garanzie quanto a responsabilità e valutazione del servizio che la stessa “Buona Scuola” pone a fondamento di una vera autonomia responsabile nella quale «ogni scuola deve poter schierare la miglior squadra possibile». Proprio come avviene nelle scuole paritarie, che questa autonomia già ce l’hanno. Per inciso, le scuole paritarie (che la “Buona Scuola” non menziona mai…) già da tempo assumono i docenti a tempo indeterminato obbedendo alla norma europea che non consente la reiterazione dei contratti a termine per più di 36 mesi.