N.21 - Insegnare è sempre un rapporto con la realtà

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Questa settimana pubblichiamo il contributo di Daniela Notarbartolo, responsabile della Bottega dell’Insegnare di Diesse Italiano Lingua, sul lavoro di paragone con il testo Insegnare oggi. Nuovi contesti e nuove sfide.


In apertura delle tre Botteghe di Italiano Lingua di quest’anno, ho voluto comunicare ai partecipanti quello che ha suscitato in me la lezione di J. Carrón dell’11 ottobre scorso. Metterlo in comune significa partire con un orizzonte e non con le urgenze.
Nella nostra Bottega, che lavora in particolare sulla grammatica italiana, abbiamo sempre impostato la ricerca su un punto qualificante: la necessità di un criterio che permette di identificare i fenomeni linguistici. Per questo mi sono molto immedesimata con la risposta data alla seconda domanda sul compito della scuola (cfr. Insegnare oggi. Nuovi contesti e nuove sfide, pp. 7-11). Solitamente a scuola non viene dato un criterio univoco (per esempio per riconoscere le parti del discorso: i nomi, o i verbi), le definizioni sono molte volte ambigue. Lo studente a quel punto deve solo memorizzare, perché il principio di comprensione è contraddittorio: scambia il soggetto per l’agente, non riconosce nomi di processi o verbi di non-azione, ecc. Ci sono molte ricerche che mostrano questo fatto. Questo modo di fare grammatica inoltre risulta umiliante per un ragazzo che si sente dire: è così perché è così. La ricerca che facciamo di un “criterio certo” in grammatica, “visibile”, convincente, permette allo studente di usare in proprio la ragione, permette il paragone e quindi il vero apprendimento. Il motivo vero di questa direzione di ricerca è che parlare di “ragione” significa mostrare la corrispondenza fra Dio e uomo (cfr. Discorso di Benedetto XVI a Regensburg su Fede, ragione e università, 2006). È una cosa veramente straordinaria che la nostra ragione trovi corrispondenza nell’Essere: significa che l’Essere è ragionevole e ci ha comunicato una sua caratteristica e che ci chiede un’adesione ragionevole.

Per come l’ha detta Carrón, la questione del criterio tocca anche un’altra prospettiva: che quando questa corrispondenza viene percepita, educativamente avviene la possibilità di stare davanti alla realtà. Non si tratta dunque solo di grammatica o matematica o delle materie di studio, bensì della realtà in quanto tale, capace di rispondere a chi la interroga (cfr. Costantino Esposito, Che cosa significa lavoro culturale, Convention Diesse 2014). È un percorso altamente educativo quello che si fa a scuola, dove l’adulto invita l’alunno a fare diventare vero per sé quello che gli viene proposto. Educativo perché forma un habitus mentis di fiduciosa interrogazione del dato, di confidenza nell’impatto con le cose, di ricerca delle evidenze che possono guidarlo. I bambini e i ragazzi che vivono questa proposta educativa appaiono palesemente “diversi” a chi li osserva. In che cosa? In questo rapporto con la realtà pieno di confidente attesa di un bene. Un’antropologia, non solo le cose da sapere: non basta educare gente sveglia, se non si educa gente affidata al rapporto con la realtà.

Mi ha interrogato anche la risposta alla terza domanda sulle materie (cfr. Insegnare oggi. Nuovi contesti e nuove sfide, pp. 11-14), dove Carrón parlava del testo e in pratica sfidava a trovare lo stesso metodo in matematica. Io in questi anni ho capito che la sintesi è prima, nel professore: è lui che deve sapere qual è la “cosa interessante” che non deve sfuggire in mezzo ai particolari, che rende avvincente quello che propone. Anche i docenti che frequentano i corsi proposti da Diesse apprezzano in noi una integralità che colgono nel modo di presentare le cose più minute o tecniche.
La grammatica per esempio dà accesso alla coerenza e alla sensatezza dei discorsi, che non è un dato irrilevante. Anche nella più dura perdita di speranza, quando tutto fosse oscuro, non smettiamo di parlare sensatamente, le parole si dispongono con ordine al loro posto nella frase. La cosa che non deve sfuggire è che la lingua è un cosmo dove tutto si tiene. Il discorso richiede la coerenza (c’è una ratio delle cose), la pertinenza a me (coinvolge il soggetto), l’inter-esse (coinvolge altro da me), l’intenzione comunicativa di frasi e testi (c’è uno scopo delle cose). Finché PARLIAMO il nulla e il non senso non possono prevalere!! Allo stesso modo, è consolante che, in un contesto che fosse storicamente confuso, le leggi della fisica continuino ad essere valide: la sedia ha quattro gambe e mi tiene su. Riconoscere la stabilità del mondo è utile, dà benessere.

Spesso mi capita di parlare di competenze, e rispetto alla deriva funzionalista della scuola faccio notare come sia veramente “utile” quello che fa essere uomini: questo non lo dicono in molti. La lettura è sommamente utile (non è attività disinteressata, o sforamento verso l’immaginario o la fantasia – vedi tanti titoli di antologie del biennio), in quanto è la possibilità per me di allargare la percezione che ho di me stessa e del mondo, di avere mille vite e non solo la mia, di saper guardare le pieghe del cuore del “personaggio”, e così saper interloquire meglio con l’altro, capirlo di più … è una competenza utilissima accorgersi di un’ombra nel volto dell’altro, prevedere la sua reazione, o quello che non sa di pensare. Ai miei alunni quante volte ho detto cose come: ma come fai a vivere se non hai letto Virgilio? Che vuol dire: ti serve!

Queste cose il collega a cui faccio formazione, sulla grammatica o su altro, le sente vere perché ne ha bisogno, e se non sapeva di averne bisogno lì gli viene il sospetto. Fare formazione richiede da un lato una conoscenza approfondita delle cose, frutto di metabolizzazione lenta e faticosa di idee e di esperienze, dall’altra una partecipazione al bisogno dell’altro che non ci fa saltare “la cosa importante” da dirgli e che si manifesta nel dettaglio concreto, cogliendo l’occasione che si presenta per aprire l’orizzonte oltre il dettaglio.