N.24 - Uno sguardo per ripartire

2015_2016_24-uno-sguardo-per-ripartire.pdf112 KB

Tante volte siamo di fronte a bambini e ragazzi che si “comportano male” e di fronte ai quali non sappiamo da dove cominciare. Vi proponiamo il racconto dell’esperienza di un’insegnante che ha deciso di rischiare nella sua esperienza professionale ciò che, a questo proposito, ha ascoltato alla Convention di Diesse.

«Noi adulti abbiamo ridotto l'io ai suoi fattori antecedenti, di tipo psicologico, sociologico, culturale, storico, ecc. ma se noi adulti guardiamo il ragazzo così ridotto nel suo io, immaginiamo il disagio! Davanti a noi non c’è più io a cui rivolgersi […] come se uno rinunciasse al suo compito educativo. […] Accettare senza criticità questa situazione significa avere già dato un giudizio sull’uomo, aver formulato una diagnosi del disagio; ma se tutti noi guardiamo i ragazzi in questo modo […] collaboriamo a incrementare la debolezza dei giovani». (da Insegnare oggi. Nuovi contesti e nuove sfide, pag. 6)

Quando per la prima volta ho riletto questo brano dell’intervento di Carrón, ho pensato che non fosse per me e che come insegnante della scuola dell’Infanzia questo rischio non ci fosse. Poi l’altra settimana a scuola è successo questo fatto.
M. è un bambino di 3 anni molto vivace che non sta mai fermo. Mai! In questo suo muoversi spessissimo urta gli altri, li spinge, li calcia… e tutti si lamentano di lui. Si comporta così non perché sia dispettoso o voglia far male, ma perché è il suo modo di stare in rapporto. Sembra che conosca solo questa modalità, oltre che dare baci e stringerti fino a farti diventare viola la faccia, e saltarti letteralmente in braccio, quando meno te lo aspetti. Viene da noi insegnanti spesso ‘richiamato’ ed è sulla bocca di tutti, a volte anche quando non c’entra con quello che accade. “M. mi ha fatto…”, “M. mi ha detto…”
L’altro giorno, in cortile dopo pranzo, M. ha fatto l’ennesimo dispetto a una bambina, dandole un calcio, davanti ai miei occhi. Non ne potevo più, e così, molto arrabbiata, l’ho allontanato dal gioco per un po’ facendolo stare seduto vicino a me, in quanto non era quello il modo di giocare, di rapportarsi agli altri. Stavo già pensando che è sempre il solito, che è capace solo di… quando mi sono venute in mente le parole di Carrón: «…guardiamo il ragazzo così ridotto nel suo io».
Mi è balzato agli occhi che queste parole erano, sono per me.
Io riduco questo bambino mille volte al giorno a quello che penso, a quello che già so di questo bambino, a quello che ho in mente. E sicuramente lui si sente guardato, trattato da me, per quello che fa arrabbiare, fa male ai bambini…

Ma Carrón aggiunge dopo:
«…malgrado il tentativo di riduzione dell’io, c’è qualcosa che resiste:[…] è la natura dell’Io, l’esperienza elementare. Perciò la prima questione è se entriamo a scuola pensando ai nostri ragazzi come fatti di esigenze ed evidenze elementari. […] E’ un giudizio, uno sguardo sull’io che ci deve caratterizzare.[…] L’unica speranza per lui è che ci sia qualcuno che lo guardi ancora per quello che è, che non lo riduce ai suoi antecedenti, perché solo questo sguardo gli può dare la speranza di ripartire». (da Insegnare oggi. Nuovi contesti e nuove sfide, pag. 7)

Ed è vero! La mattina seguente quando M. è arrivato in sezione, mi sono subito messa a giocare con lui, a fare puzzle, a disegnare, ripartendo come da zero; o meglio, ripartendo da uno sguardo che abbracciasse tutto di M.: fatiche, debolezze, ma innanzitutto da uno sguardo che partisse dalla certezza dell’esigenza di felicità che ha M. nel fare maldestramente tutto ciò che fa.
Durante il momento della ‘frutta’, un’oretta dopo, M. mi è saltato addosso, mi ha stritolato con le sue braccia intorno al mio collo, mi ha stampato un enorme bacio sulla guancia dicendomi: “Maestra preferita!” M. non parla bene, e io sinceramente non so se intendesse dire ‘sei la mia maestra preferita’. Forse, ma ha usato la parola preferenza! E io ho pensato che lui volesse essere da me preferito per quel che è, per come è, che volesse essere guardato da me per quelle esigenze elementari che lo costituiscono. Questo non è semplice, non è immediato, non è meccanico.
Eppure molte volte la giornata si decide in un secondo, in uno sguardo: quello che ho io su M. al mattino mentre lo accolgo, insieme alla sua mamma, o quando decido di ripartire nel rapporto, anche dopo l’ennesimo ‘danno’ che ha fatto, dando a lui sempre come un’altra possibilità. Perché M. non è ciò che apparentemente sembra o mostra di sé.
Reagisce immediatamente se un bambino fa o subisce un torto da un altro, sa rinunciare alla palla che tiene gelosamente in mano, se capisce che un bambino è triste perché la vuole, e lo può rendere contento; sa stupirsi meravigliato di fronte a una mantide trovata in giardino, o a una carezza inaspettata dell’adulto sul suo volto. Cioè desidera essere felice come me, ha il cuore uguale al mio, ma semplicemente non sa da che parte cominciare. Mi accorgo che il mio compito è realmente quello di educarlo, cioè introdurlo alla realtà, ad un modo adeguato di stare alla realtà, ad una posizione umana che gli corrisponda di più. Sono altrettanto certa, però, che solo se io ho una posizione così, uno sguardo così su M. (che è parte della mia realtà), andando ‘come a prenderlo’ nel punto in cui è, accogliendo i suoi bisogni, (di movimento, di affetto, di essere presente nella mente e nel cuore di qualcuno), posso dargli realmente la speranza di ripartire ogni secondo, così come i mei amici della Bottega dell’Infanzia fanno con me.